Piano Territoriale Regionale – Il contributo del Gruppo Verdi

Pubblicato da Alessandro Ronchi il

Pubblichiamo il documento presentato nella seduta del 2 Maggio all’assemblea legislativa della nostra regione dalla Presidente del Gruppo Consiliare Verdi.

L’Italia e l’Emilia-Romagna alla prova della globalizzazione
Il veloce cambiamento dei processi economici, l’irruzione dei meccanismi della globalizzazione mettono a dura prova i modelli produttivi consolidati, le identità  locali e l’ambiente.
I meccanismi di trasformazione del territorio sono sempre meno governabili e le collettività  locali subiscono forti pressioni da lobby esterne e da soggetti forti non direttamente coinvolti nei meccanismi decisionali.
Soggetti forti che sovrastano gli interessi collettivi delle comunità  imponendo modelli e scelte che nascono altrove e che spesso altrove portano benefici.
La pianificazione è la scacchiera nella quale si concretizzano le scelte e che spesso non le determina ma le recepisce acriticamente dall’esterno. La pianificazione non può e non deve rimanere separata dalle strategie di sviluppo sociale ed economico e pertanto, preliminare ad intraprendere la costruzione di un PTR, è la determinazione delle scelte del modello di sviluppo ovvero la scelta tra l’accettazione e/o l’adeguamento a modelli esogeni o alla affermazione di modelli più legati alle peculiarità  territoriali.
Preliminare alla possibilità  di costruire, approvare o respingere un PTR c’è la scelta della direzione nella quale si vuole che l’Emilia-Romagna vada e, per quanto riguarda i Verdi, come e quanto possono e vogliono incidere nella scelta di quella direzione.

Che ruolo svolgere nella globalizzazione?
Stati Uniti, Cina, India e prima di loro il Giappone poggiano le loro strategie di sviluppo su grandi aree metropolitane. Anche l’Europa segue questo percorso concentrando la forza produttiva e politica sulle grandi capitali. L’Italia è in ritardo rispetto a questi processi ma è anche vero che la grande diffusione territoriale dei tessuti produttivi locali che fanno perno su piccole e medie imprese e su sistemi di piccole e medie città  e sulla presenza diffusa di beni culturali e ambientali, può costituire, nella competizione globale, una opportunità  diversa.
Che fare?
Decidere di cavalcare il sistema della rete di grandi città  metropolitane o difendere il sistema della rete delle piccole e medie città  e delle piccole e medie aziende, o fare un mix?
La rete delle grandi infrastrutture segue il modello virtuale centro-periferia che non è il nostro modello reale. Vogliamo mettere in discussione scelte che, calate dall’alto, non hanno dato i frutti attesi?
In alcuni settori è essenziale agganciarsi alla rete delle grandi città  metropolitane instaurando relazioni con le grandi piattaforme internazionali per ottenere servizi che non sarebbero riproducibili localmente. Ma questo richiede una forte coerenza regionale per individuare solo pochi e ben definiti punti di accesso alle reti globali organizzando nel territorio una diffusa accessibilità  alla rete regionale.
Si tratta di usare l’Emilia-Romagna come un’area metropolitana riducendo i costi e gli sforzi per inserirsi nei mercati globali. [si parla di scienza/tecnologia/nodi organizzativi della logistica mondiale/finanza internazionale/produzione e servizi della new economy].

Quale spazio per l’autosostenibilita’?
Accanto a questo sistema, per così dire internazionale se ne può sostenere un altro, peraltro già  esistente ma in crisi identitaria e produttiva che è quello delle “economie locali” di quella economia cioè che acquista coscienza dalle basi locali della produzione di ricchezza durevole e che è attenta a fermare il saccheggio e il degrado di risorse territoriali, ambientali e umane indirizzando l’economia in funzione della valorizzazione del proprio patrimonio di lunga durata.
E’ una scelta che nasce innanzitutto da una modifica nell’approccio culturale e sottende al concetto di sviluppo locale autosostenibile. Il perno di questo ragionamento sta nella volontà  di ridurre l’impronta ecologica della produzione e del consumo producendo un riequilibrio locale (migliore qualità  della vita) e mondiale (riduzione del divario coi paesi poveri).
Non si tratta di ridurre i consumi ma di trasformare gli stili di vita e dei consumi aumentando il benessere ma riducendo l’impronta ecologica. Un esempio: trascorrere pasquetta al mare o trascorrerla nei parchi periurbani e/o fluviali può dare la stessa gratificazione ma ben diversa è l’impronta ecologica delle due scelte: una implica consumo di carburante e di tempo per il trasporto, l’altra è meno dispendiosa e produce un aumento del tempo libero. Un altro esempio attiene al consumo di prodotti locali: consumare prodotti locali significa ridurre il peso economico ed ecologico del trasporto, mantenere coesione tra città  e campagna, valorizzare la vendita diretta ed attivare azioni di educazione alimentare. Consumare prodotti ortofrutticoli provenienti ad esempio dalla Spagna portando i nostri prodotti in Cina significa promuovere un modello stolto e insostenibile senza alcun vantaggio per i nostri agricoltori.
Anziché lasciare che le abitudini e i modi del consumo siano eterodiretti da soggetti e da finalità  estranee alla comunità  attraverso la critica, ci si riappropria di saperi produttivi, di pratiche di vita e di consumo dando vita ad un modello di sviluppo alternativo. Ciò produce una modifica nella domanda che sarà  in grado di indirizzare le qualità  della produzione e le tipologie dei beni prodotti. I processi produttivi vengono in tal modo finalizzati al benessere collettivo ed individuale senza delegare alle imprese di profitto le scelte di produzione del territorio.
In questa ottica è possibile non solo investire, energie ed incentivi alla chiusura di cicli ecologici (acqua, rifiuti, alimentazione, energia) ma anche costruire un nuovo rapporto sinergico fra mondo urbano e rurale.
Sostenere nuove forme dell’abitare, del consumare, del produrre localmente beni e servizi pubblici significa innestare i presupposti di una nuova economia e dunque di posti di lavoro.
L’ecomia ecologica e lo sviluppo tecnologico
Politica ambientale non significa più riparazione dei danni causati dalle attività  economiche ma cambiamento delle attività  economiche al fine di prevenire i danni ambientali.
Le dinamiche dell’economia e l’imperante paradigma della crescita, contribuiscono in larga misura ad accentuare i problemi ecologici con i quali ci dobbiamo oggi misurare. Per tali motivi riteniamo sia essenziale che il progresso tecnologico venga ri-orientato in modo da svincolare la crescita economica dall’aumento dell’impatto ambientale.
Quando parliamo di progresso tecnologico bisogna chiarire quali sono (o devono essere) la sua finalità , in relazione con la sostenibilità  dello sviluppo.
Fin ad oggi lo sviluppo tecnologico è stato finalizzato all’aumento della produttività  del lavoro senza alcuna preoccupazione per le sue conseguenze ambientali. Negli ultimi 150 anni la produttività  del lavoro è aumentata di 20 volte.
Il progresso tecnologico ha reso possibile livelli di crescita economica assolutamente inconcepibili per le generazioni precedenti ma ci ha spinto verso un insostenibile consumo di risorse .
Le cause della crisi ecologica sono dunque profondamente radicate nella moderna società  industriale.
La fede acritica nella scienza e nella tecnologia dimostra oggi che essa era illusoria: gli attuali problemi sociali, ecologici, le guerre e l’instabilità  politica ci dimostrano che il progresso come viene comunemente inteso non è tale.
Sarebbe bene domandarsi se sia possibile che la continua e sfrenata crescita economica possa davvero portare nel lungo termine a svincolare l’andamento dei redditi (e dunque in generale l’aumento del benessere) dall’aumento dell’uso dei materiali.
Se un aumento dell’efficienza nell’uso delle risorse porta ad un aumento del tasso di crescita, annulla il vantaggio portato dall’efficienza. L’economia genera al suo interno un ingranaggio moltiplicativo che incrementa anche il consumo delle risorse.
La crescita produttiva può avvenire solo in presenza di crescita dei consumi e dunque la domanda di consumo è incoraggiata: si consuma per compensare problemi e tensioni, per migliorare il proprio stato sociale, si compensano le relazioni umane scadenti.
Aumentano i prodotti usa e getta, si riduce la vita dei prodotti durevoli. Tutto ciò è profondamente in contrasto con i cardini di uno sviluppo sostenibile.
Se assumiamo il paradigma dello sviluppo sostenibile quale obbiettivo da perseguire nelle scelte politiche ed amministrative è necessario avere la consapevolezza che non possiamo negli strumenti programmatici (come il PTR) aderire ad un modello e non perseguirlo nei vari livelli territoriali e nei vari settori di intervento.
La libertà  di azione delle imprese è utile in questa fase a garantire una vera concorrenza basata sulla ricerca e l’innovazione: proteggere le grandi imprese non è utile perché riduce il pluralismo.
Tutelare le strutture esistenti non solo impedisce il cambiamento strutturale ma limita drasticamente la libertà  dei settori più innovativi.
Il protezionismo effettuato nei confronti delle grandi case automobilistiche ad esempio non ha aiutato a cambiare modello ma solo a correggere il vecchio.
Oggi gran parte del dibattito, in Italia come in Emilia Romagna così come nell’UE si incentra sulla opportunità  di tutelare l’industria nazionale riducendo i costi di impresa, al fine di migliorare la competitività . Questa discussione trascura completamente di valutare quanto la corsa alla CRESCITA all’interno della triade UE-USA-GIAPPONE (ed ora anche CINA), col trasferimento di modelli di consumo occidentali al resto del mondo, siano inconciliabili con uno sviluppo sostenibile.
E’ vero che la globalizzazione è un fenomeno col quale è necessario fare i conti ma già  molti riconoscono che le economie più avanzate difficilmente riusciranno a competere coi costi più bassi dai paesi emergenti e che nel medio periodo la competitività  premierà  non chi ha costi più bassi bensì chi ha maggiori capacità  di innovazione.
L’economia ha bisogno di mercati funzionanti che consentano concorrenza a livello internazionale (meno burocrazia meno complessità  delle norme meno instabilità  delle aspettative più informazione).
Rimuovere gli ostacoli alla concorrenza è utile per il decollo della politica economica ecologica.
Si preda ad esempio il mercato dell’energia, dominato da pochissimi produttori, lo stesso vale per il settore dei rifiuti.

La dematerializzazione
Il perno centrale di una politica economica ecologica è la dematerializzazione, ovvero l’obbiettivo di ridurre il consumo di materiali.
Dematerializzare significa ridurre l’input di materia ed energia e conseguentemente ridurre output di scorie. Mediamente ogni cittadino del centro Europa consuma dalle 70-80 q di materiale prelevate dall’ambiente e tali quantità , se applicate al dato che il 20% dell’umanità  ( ovvero chi vive nei paesi industrializzati) è responsabile del consumo dell’80% dei flussi di materiali di livello mondiale ci dimostra come la riduzione del consumo di materia alle nostre latitudine è una necessità  a dir poco banale.
La dematerializzazione non può essere un obbligo ma può diventare un vantaggio e un valore e come tale in grado di avviare un cambiamento reale nel modello di sviluppo della società .
Ci sono oggi metodi di calcolo utili a valutare l’intensità  dei materiali usati includendo nel calcolo tutte le componenti in gioco dalla materia vera e propria all’energia per mantenerla al trasporto ecc.
Tali strumenti sono il MIPS (Material input per unit of service) il MAIA (Material jntensit anilis) l’impronta ecologica ( l’area territoriale complessiva “usata” per le attività  esaminate) il MIPS è un indicatore col quale viene valutato l’impatto ambientale dei beni e dei servizi lungo tutte le fasi della loro vita.
Tali metodi permettono di verificare la appetibilità  di prodotti e di servizi secondo criteri di sostenibilità  ambientali, suggerendo criteri di scelta che possono essere utili a riorientare il mercato.
La dematerializzazione necessita di un buon meccanismo di informazione (conoscere per scegliere) se pensiamo ai consumatori (e tra questi le amministrazioni pubbliche attraverso il sistema degli acquisti verdi) ed una innovazione tecnologica ben orientata se pensiamo ai produttori.
Finora l’accelerazione dell’innovazione tecnologiche ha accorciato la vita dei prodotti e non il contrario.

Lo sviluppo sostenibile
Per arrivare allo sviluppo sostenibile serve molto di più di qualche suggerimento: serve innanzitutto la volontà  di approfondire davvero la complessità  di un meccanismo di sostenibilità , servono imprenditori intenzionati ad innovare, politici intenzionati a promuovere quel tipo di innovazione e consumatori consapevoli di essere una parte importante di quel sistema.
Non serve proseguire con la politica ambientale tradizionale fondata sulle infinite regolamentazioni e normative (del resto spesso disattese od eluse); un sistema di rigidi obblighi e controlli è troppo rigido per le imprese e spesso demotivante per i consumatori. Finché l’attenzione resta incentrata sulle singole sostanze inquinanti, l’innovazione tecnologica tende ad indirizzarsi verso la loro riduzione o sostituzione, ciò non fa decollare prodotti e processi profondamente nuovi.
La governance
Superare un sistema di governance di tipo deterministico e gerarchico può essere necessario per governare la complessità  con la necessaria duttilità , ma non significa derogare alla necessità  di governare il sistema di reti, non significa lasciare il campo alla deregulation politico-amministrativa, bensì significa trovare la strada di un sistema cooperativo, in grado di co-decidere ed interagire.
Se il sistema policentrico ha avuto il valore positivo di potenziare le realtà  territoriali, ora esso dimostra tutti i suoi limiti nel rendere evidente che le realtà  territoriali hanno agito spesso come monadi, egoistiche e autoreferenziali, spesso in competizione tra loro.
Per superare il sistema policentrico e farlo evolvere verso un sistema-regione, è necessario prendere atto del sistema delle reti, della loro interazione e del loro rapporto con gli attori.
Identificate le reti e gli attori va fortemente promossa ed incentivata la loro capacità  di autoapprendimento e di autoregolamentazione, che necessariamente deve avere anche una sede politica comune, integrata e non separata dalle strutture politiche amministrative regionali ( la camera dei Comuni?). In questo senso non sono sufficienti le attuali sedi consultive delle autonomie locali né le separate articolazioni della Provincia ( assemblea Elettiva ed assemblea dei Sindaci).

Il Piano Territoriale Regionale come progetto di territorio
La Regione è un sistema territoriale complesso che comprende componenti in interazione dinamica tra loro: una componente socio-culturale fatta di strutture sociali, insediative, ma anche simboliche e di identità ; una componente territoriale-economico-ecologico che comprende le tecnostrutture insediative ( i centri produttivi, i trasporti, le reti energetiche); una componente territoriale biologica che comprende i sistemi viventi.
La Regione, pur all’interno di un sistema globale, nazionale ed internazionale complesso, ha una sua possibilità  autoregolativa che va progettata e mantenuta efficiente anche attraverso continui processi di innovazione politico-amministrativa.
La regione è composta ed attraversata da un sistema di reti che superano le collocazioni spaziali.
Le reti sono: le reti ambientali, le reti insediative, le reti infrastrutturali e trasportistiche.
Ciascuna delle reti possiede nodi di interconnessioni ed intersecandosi e sovrapponendosi possono produrre conflitti ed è per questo che va pensata e costruita l’integrazione fra esse prima ancora della loro interazione.
Così come va assunto come tema quello dei luoghi. I “luoghi” sono i depositi di lungo periodo della ricchezza di senso di un territorio e la Regione è un mosaico di luoghi dotati di varietà  paesistica oggi minacciato da processi di deterritorializzazione, omologazione e omogenizzazione.
Le reti dunque vanno “radicate” e poste in relazione coi luoghi: ciò evita da un lato che un territorio sia semplicemente “sorvolato” dai flussi (di persone, di merci, di capitali, di informazioni) e dall’altro evita che i nuovi investimenti per la produzione dei beni si traduca in un degrado di risorse, di valori, di identità .
“Reticolare” i luoghi è un indirizzo strategico che serve ad evitare il rischio dell’abbandono dei luoghi e dei paesaggi: i luoghi infatti per conservarsi devono continuamente ridefinire il loro senso economico “ la loro attrattività  “ e la loro identità  culturale, ciò anche per trattenere i vecchi abitanti e/o motivarne dei nuovi.
Una vicenda paradigmatica è quella recente delle grotte di Onferno, ove la creatività  e la capacità  di proposizione dei residenti per la gestione di un aspetto peculiare del loro aspetto del loro territorio è stata mortificata a favore dell’ennesima grande struttura della costa e di una gestione omologante e neo colonialista.

La partecipazione
Per realizzare scenari di futuro sostenibile fondati sulla crescita delle società  locali e sulla valorizzazione dei patrimoni ambientali, territoriali e culturali propri di ciascun luogo, gli enti pubblici territoriali devono attivare nuove forme di esercizio della democrazia rafforzando le società  locali ed i loro sistemi democratici di decisione per resistere agli effetti omologanti e di dominio della globalizzazione economica e politica e promuovendo il sistema delle reti solidali. Gli Enti locali possono trasformarsi da luoghi di amministrazione burocratica spesso eterodiretti dai poteri forti, in laboratori di auto governo. Assumendo la centralità  dell’abitante ““ produttore che esercita la propria attività  economica prendendosi cura del luogo e non solo intendendo il luogo come risorsa da sfruttare, da un lato si fanno decollare nuovi lavori e nuove imprese, dall’altro si gettano le basi per una economia che nasce nel segno della sostenibilità .
Accanto agli istituti di democrazia delegata (gli organi elettivi) vanno creati nuovi istituti di decisione che superino la ormai obsoleta pratica della concertazione ovvero della consultazione. Consultare non significa costruzione condivisa del progetto, consultare significa quasi sempre attivare i meccanismi burocratici di “passaggio consultivo” nei quartieri, nelle associazioni sindacali o produttive nelle associazioni degli enti locali.
Il deficit di rappresentanza vera delle stesse associazioni oggi non evita che il bisogno di rappresentanza spesso sfoci in forme di puro antagonismo e di antipolitica.
Il superamento della logica di una rappresentanza definita una tantum al momento del voto, permette di produrre politiche pubbliche più condivise e dunque più efficaci coinvolgendo anche i soggetti cosiddetti deboli, sempre sotto rappresentati nei luoghi delle decisioni. Il grado e la forma di partecipazione sociale alle decisioni deve diventare un criterio importante nella valutazione delle stato di benessere.
E’ una sfida ardua e difficile ma, la attivazione di istituti di progettazione-gestione-realizzazione del futuro del territorio, che coinvolgono nelle forme più ampie le componenti sociali nei meccanismi decisionali potrebbe aiutare a risolvere quei conflitti che, inevitabilmente nascono e sempre più nasceranno, per contrastare decisioni assunte da enti amministrativi ovviamente nel pieno delle proprie funzioni ma in situazione di forte scollamento con i bisogni delle realtà  sociali reali.
Gli usi e le trasformazioni del territorio sono il classico terreno di conflitto: da un lato chi queste risorse (il territorio, l’ambiente) li vuole trasformare in rendite finanziarie e chi intende mantenerli come risorse per le generazioni future.
Quando si rendono edificabili alcune aree non si distribuisce una risorsa disponibile a tutti gli effetti ma si compie una sorta di transazione che va a beneficio di pochi comportando un costo per un numero elevato di attori. Qualcuno (tanti) perdono in termini di qualità  ambientale (acqua, impermeabilizzazione, traffico, rumore, biodiversità  senso di identità ), i proprietari dei terreni guadagnano la differenza tra il prezzo del terreno agricolo e il prezzo del terreno edificabile.
Gli istituti di partecipazione possono aiutare a trasformare i conflitti personali e puntuali in occasioni di scelte condivise e sostenibili.
Concludendo, con questo documento crediamo di fornire alla Giunta regionale spunti di riflessione per la costruzione di un PTR innovativo, efficace e partecipato; un PTR che sappia mantenere quanto di buono è stato fatto nel passato come le scelte del piano paesistico regionale e la corresponsabilizzazione degli enti locali facendo decollare nello stesso tempo nuovi sistemi di governance e meccanismi che mettano in coerenza le scelte compiute nei vari livelli.
Inoltre, una pianificazione regionale non può sfuggire alle contingenze del momento: i piani regolatori dei Comuni e l’abuso di strumenti previsti dalla L.20 come ad esempio gli accordi di programma stanno dando l’avvio ad una nuova stagione di espansione e di consumo del territorio che spesso fa discutere. Emblematici sono i casi di Romilia dei così detti motori immobiliari e del centro direzionale dell’aeroporto Marconi. A queste problematiche non si può dare risposta a PTR concluso, rischieremmo di doverci occupare solo di nuovi ed ennesimi meccanismi di riduzione del danno anziché disegnare i fondamenti dell’Emilia-Romagna del futuro.
Oggi sappiamo che da un lato non è più sufficiente la sola tutela del paesaggio e del territorio e dall’altro la delega data agli enti locali spesso finisce per trasformarsi in pura e semplice deregulation.
La sostenibilità  implica scelte precise negli scenari di sviluppo e meccanismi di governance capaci di dare al sistema organicità  e coerenza.

Daniela Guerra

Categorie: Generale

0 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.